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Buongiorno e ben ritrovati.

E’ sempre un piacere per me poter scrivere sul blog, uno spazio aperto al dialogo con esperti del settore e non, uno spazio di confronto e perché no, anche di scontro, sempre con modi civili e con il desiderio di crescere, migliorarsi e imparare dagli altri.

Oggi vorrei affrontare uno dei tanti argomenti che mi stanno molto a cuore per quanto riguarda ovviamente il mondo IAA, ovvero la differenza tra un professionista e un volontario.

Succede quando proponiamo un progetto, quando ci presentiamo a una realtà, quando conosciamo di persona direttori e direttrici di strutture, di imbatterci nella difficoltà di far comprendere perché i servizi offerti abbiano determinati costi, perché è necessario progettare i nostri interventi e perché non è corretto far scegliere il cane come si sceglie su che giostra andare al parco dei divertimenti.

Perché avvengono certe cose?

La risposta è banale e scontata: la responsabilità è dei volontari o semplici amatori, della diffusione di materiale informativo colmo di errate convinzioni e della superficialità di alcuni addetti ai lavori. Molte persone, semplicemente perché dotate di un amico a quattro zampe, si arrogano il diritto di chiamarsi “operatori di pet therapy“, di vendere (o meglio, svendere o ancor peggio regalare) i loro servizi e la compagnia del proprio quattro zampe.

Sento già delle voci nella folla dire “eh, ma che male c’è, il volontariato è una cosa bella!”, mai frase fu più giusta e vera, ma fermiamoci a riflettere:

  • quando fate servizio di pet therapy, siete soli o siete insieme a un animale, che ha dei sentimenti, delle fragilità, un registro comunicativo differente, una sua etologia?
  • se non avete studiato per capire tutte queste cose, come fareste ad accorgervene?
  • come riuscireste a cogliere dei segnali di difficoltà del vostro collega a quattro zampe?
  • come saprete comprendere quali attività siano più adatte e congrue per lui?

Il rischio che si corre, è di danneggiare la relazione con il nostro animale e ancor peggio, di sottoporlo a inutili e deleteri momenti di sofferenza psicologica ed emotiva.

Il discorso non termina qui poiché oltre a correre il rischio di essere approssimativi nei riguardi dei nostri co-terapeuti, possiamo anche esserlo nei confronti dell’utenza. Quando prendiamo in carico un caso, dobbiamo sapere di essere competenti, di avere chiara la responsabilità nei confronti dei pazienti, da un punto di vista scientifico, sanitario, emozionale, relazionale e emotivo. Dobbiamo saper progettare interventi mirati, saper individuare i punti di forza, le fragilità e quindi gli obiettivi da raggiungere, dobbiamo saper individuare un fine ultimo, un motivo che ci accompagni durante l’arco di tutte le nostre sedute. Se non abbiamo chiaro questa responsabilità deontologica allora sicuramente saremo approssimativi, “regalando” all’utenza un’esperienza blanda, priva di significato, carica solamente di buone intenzioni.

Ragioniamo con un esempio:

Filippo ha 25 anni, è laureato al dams e lavora presso una casa cinematografica come operatore, da sempre spende i suoi fine settimana nelle case di riposo della sua zona, servendo i pasti, giocando a carte e gestendo la tombolata della domenica. Da qualche tempo divide la casa con Rock, un meticcio di grossa taglia di 5 anni, da lui adottato. Decide così di proporre alle rsa di portare il suo fedele quattro zampe e uno degli enti, allietato dalla gratuità accetta. Il nostro “operatore” è però privo di una preparazione specifica, così come ne è privo il cane, i due presto si rendono responsabili di momenti rischiosi, quando Rock, perso di vista dal padrone, con un balzo si porta sulle ginocchia dell’utente Gianluca, graffiandolo; inoltre i pomeriggi sono lunghi ed estenuanti per entrambi visto che Filippo si ferma in struttura con il suo cane per ore ed entrambi tornano sempre a casa esausti. La qualità degli interventi è bassa perché al “coadiutore” mancano gli strumenti per poter coinvolgere efficacemente l’utenza, che seduta dopo seduta è sempre meno attratta dalla novità, preferendo la televisione o semplicemente un po’ di ozio. Le conseguenze dell’intervento di Filippo e Rock sono le seguenti: coadiutore e cane sono esausti e stressati, l’utenza non ha tratto dei benefici riscontrabili al di fuori delle sedute e in alcuni casi addirittura è stata messa in pericolo, la direzione è ora diffidente nei confronti della pet therapy.

Per questo servono oltre alla passione e all’amore per il lavoro che vogliamo fare, competenza, preparazione, serve il sapere proprio del bagaglio del professionista, una ipotetica cassetta degli attrezzi nella quale l’operatore preparato ha raccolto le sue esperienze sul campo e quelle dei colleghi, le teorie pedagogiche, educative, psicologiche, ma soprattutto la convinzione, salda, ferma, fondamentale: si lavora sempre in situazione, poiché non c’è mai una situazione che si ripeterà identica.

Antonio F.